Dragonara


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Percorso

Da via Scarpellini ci si immette su via Canalone. Via Dragonara (la prima a destra da piazzetta Dragonara) porta alla casa in cui abitò Giorgio Amendola; sulla sinistra la casa in cui alloggiarono alcune confinate (oggi è un b&b), di fronte, il viottolo che conduce a casa Bosso, dove vissero i confinati Carlo Fabbri e Silvio Campanile con le loro mogli ponzesi; all'inizio del viottolo Tornando alla piazzetta Dragonara, si ha di fronte la via che conduce alla Cisterna Romana; nell’edificio diroccato all’inizio della strada fu istituita una mensa; nei pressi della Cisterna vi era una garitta.

Testimonianze


Giorgio Amendola (confinato): Germaine partì, finalmente (da Parigi), bombardata dalle più nere previsioni. Sembrava che dovesse partire per la Caienna. La propaganda antifascista aveva fornito un quadro terribile delle condizioni materiali di vita dei confinati. Non aveva colto né il vero carattere né le conseguenze della repressione fascista: lo stato di continua incertezza, di dover dipendere dagli arbitri e dai mutevoli umori del direttore, degli ufficiali della milizia, degli agenti, dei carabinieri, dei militi, il senso di mortificante impotenza di fronte alla forza del regime. Invece le condizioni materiali non erano cattive. La “mazzetta” assicurava condizioni superiori a quelle riservate, in talune regioni, a certe categorie di lavoratori. La casa stava su una scalinata interna al paese. Due grandi stanze comunicanti. Una guardava sul mare. Germaine appena entrata corse al balcone. Il sole stava già calando. Guardò a lungo, si voltò illuminata e sorridente, già conquistata. L’altra stanza comunicava direttamente col portoncino che dava su una scaletta esterna. Nel portoncino c’era uno sportello, apribile dal di fuori. Doveva permettere alle ronde notturne di guardare, attraverso la porta interna sempre spalancata, direttamente fin nella camera da letto. Qualche volta la ronda di notte ci avrebbe sorpreso in posizioni non castigate. La casa era nuda, pareti bianche di calce, pavimenti di vecchie maioliche. Niente mobili veri e propri, solo due brande concesse dall’amministrazione, con materassi, lenzuola e coperte. I compagni avevano preparato un grande armadio, con legno ricavato dagli imballaggi e pareti di cartone, tutto dipinto di marrone chiaro. Nella prima stanza un tavolo, una biblioteca, quattro sgabelli laccati di un rosso sgargiante: tutti mobili costruiti col legno delle cassette. C’erano anche due sedie a sdraio. Sulle brande Germaine stenderà una vivace cotonina a fiori. Nel cucinino all’ingresso c’era l’essenziale, la vecchia stufa a carbone, tutta rivestita di maioliche, ma primeggiava, indispensabile, il fornello a petrolio. Il cesso era all’inizio delle scale, fuori del portoncino, quindi inaccessibile nelle ore notturne. Nel cucinino c’era anche un piccolo pozzo per attingere da una cisterna d’acqua piovana raccolta dal tetto a botte, imbiancato ogni anno. Una casa chiara, giovane, vivace, che anticipava stili divenuti di moda, e anzi banali, decenni più tardi.


Ernesto Prudente (ponzese): La mia via del Canalone era tutt'altra cosa. Il tratto pedonabile era di molto inferiore al metro di larghezza ed era fatto con basoli, due piccoli basoli uno a fianco dell'altro per tutta la sua lunghezza. Due persone affiancate non potevano camminare e quando ci si incontrava con qualcuno che avanzava in senso opposto uno dei due era costretto a scendere nel fossato per consentire all'altro di proseguire. Durante il periodo fascista si era soliti assistere a scene disgustose. Se fra due individui che avanzavano in senso opposto uno era una camicia nera, si sentiva la sua voce imperiosa che imponeva all'altro di scendere nel canale per dargli libero passaggio: "Togliti, fammi passare!" Capitava con tutti: bambini, vecchi, donne. Ricordo ancora la racomandazione della mamma e delle zie: "Quanne ncuntre 'u fasciste ncoppe 'u Canalone, scinne sempe dint'u canale." Anche i confinati, in caso di incontro, scendevano nel fossato, con le spalle al milite che passava, e ciò per evitare processi. Uno scontro con un milite, anche per cose futili, comportava una denuncia penale. Via del Canalone segnava anche il limite di confine verso l'alto per i confinati e in tutta la sua lunghezza vi erano cinque garitte, ognuna occupata da un milite di sentinella. La Dragonara e via del Canalone, dalla mattina alla sera, erano sempre gremite di confinati. Vi erano cinque mense e il prato del "campo della miseria" dove i confinati si radunavano, prima e dopo il pranzo, per prendere il sole e per discutere dei loro problemi.

Altiero Spinelli (confinato): Durante il giorno si poteva vagare entro cinque o sei strade del paese che si inerpicavano dal mare lungo i fianchi del collinoso promontorio dell'isola e sboccavano sulla vista del mare dalla parte opposta o in una valletta allora intensamente coltivata. Chiesi e ottenni l'autorizzazione ad andare a vivere in una casa del paese e ci rimasi per nove o dieci mesi. La mia casa era ad un estremo di un brullo praticello scosceso che chiamavamo il campo della miseria, al cui estremo opposto c'erano abitazioni scavate nella roccia come i Sassi di Matera. Era stata Emilia, che mi ero scelto come lavandaia, a indicarmi questa casa e ad accompagnarmici per vederla. Il suo corpo venticinquenne, messo in rilievo, più che velato, dal leggero abito attillato che lo avvolgeva, sodo, eretto, dotato di quella leggera pesantezza mediterranea che hanno anche le statue femminili della Grecia classica, si aggirava in modo tale nelle due stanze che dovetti carezzarle lentamente il fianco. Poichè mi rivolse il viso con un leggaro sorriso, fra sottomesso e ironico, le mormorai che avrei preso in affitto la casa perchè non era lontana dalla sua e che l'attendevo per l'indomani sera. Da allora, per circa un anno, finchè se ne partì per il continente, venne da me clandestinamente quasi ogni sera finchè ebbi casa e mi accolse nella sua camera da letto quando non l'ebbi più.


Maria Baroncini (confinata): Mauro Scoccimarro e io cominciammo a frequentarci più spesso e a fare lunghe passeggiate al chiaro di luna; si vedeva in lontananza il mare e il prato della miseria era l’unico posto per sederci per terra. Mauro trovò un modesto alloggio vicino al mio sulla scalinata della Dragonara. Il suo piccolo terrazzo confinava con il mio tanto che quasi ogni giorno, dopo l’appello, preparavo il caffè e glielo passavo dal terrazzo.

Carlo Fabbri (confinato): Lettera
Alla bimba Teresa Lucia Fabbri di Carlo fu Giuseppina Bosso, nata a Foggia il 27 gennaio 1937, residente ad Intra (Lago Maggiore) presso Igino Fabbri via Restellini, 8.

Mia cara piccola, se non tornassi, sappi che sono morto per la libertà del popolo italiano e per la vittoria dei lavoratori di tutto il mondo. Ricordati, e ripensaci quando avrai più anni, che la mamma ed io abbiamo sempre lottato pensando a te; per assicurarti un domani senza fame, senza oppressione e senza guerre. Per evitare a te le umiliazioni che ha patite in vita la mamma da parte dei fascisti e della polizia. La tua povera mamma è stata una Martire. Io ho fatto meno del mio dovere e sono stato spesso inferiore al mio compito; la mamma invece, ha fatto molto di più di quello che ci si aspettava da lei. Venera la sua memoria. Ti ha voluto tanto bene. Studia! Ho saputo che sei passata agli esami, pur nell’inferno di quest’anno tremendo dopo aver sofferto il primo dolore, che è anche il più grande dolore della vita. Continua a studiare. Molto il mondo aspetta dalle nuove generazioni, che devono risolvere tutti i problemi che noi abbiamo lasciati insoluti. Il domani ha bisogno di ingegneri e di medici: se puoi, mettiti a studiare queste materie. Sii degna di tua madre, che amò, ma non fu una bambola: ella fu innanzitutto una lavoratrice ed una combattente. Io spero che il popolo italiano non dimenticherà i nostri figli: i figli dei carcerati e dei confinati, i figli dei “partigiani”. Se hai capacità e buona volontà, credo che ti faranno studiare. Fa’ sempre il tuo dovere. Sii onesta, leale e coraggiosa. Ama sempre i lavoratori e la povera gente, non con aria di protezione, ma con fraternità. I ”signori” non ci hanno fatto che del male, a tua madre, a me, a te. Quasi tutti i migliori comunisti italiani ti hanno vista bambina: ricorri a loro come a dei padri per consigli ed aiuto. Il quadro di “Biancaneve” l’ha fatto Secchia; faglielo firmare e tienlo per ricordo del tempo in cui io, tua madre e tu stessa eravamo perseguitati dal fascismo, ma eravamo infinitamente felici quando potevamo stare insieme. Addio. Tuo padre – 1944 –


Giannino Conte (ponzese): A fine luglio del '43 corse voce che Mussolini era prigioniero qui a Ponza. Io avevo una radio a galena; due carabinieri vennero a casa, mi ordinarono di trascrivere fedelmente i notiziari radio. Ogni sera passavano a ritirarli; capii che li consegnavano a Mussolini. Trascrivevo i bollettini, mi pareva così strano che Mussolini, sino a pochi giorni prima tanto potente, adesso dipendesse dalle informazioni che gli passava un ragazzo di quattordici anni.


Giosuè Coppa (ponzese): Alcuni confinati lavoravano in una grande falegnameria a Giancos. Molti lavoravano nelle loro mense: ricordo una confinata che lavorava a una mensa sulla Dragonara, di fronte alla casa di mio fratello Adalgiso; sgrullava la verdura tenendola chiusa in un canovaccio a cui faceva fare ampi giri, come in una centrifuga. Mi sembrava una scena strana, insolita, per questo la ricordo.